Labyrinth
Avevo, credo 10 anni.
Scena: al cimitero, il giorno dei morti di domenica pomeriggio. Una nebbiolina trista.
Tutta, ma proprio tutta, Faenza a ricordare i propri cari. Mi giro e non trovo la mia famiglia. Vado nel settore prima e quello dopo. Nessuno che conosco. Mi sento perso. Poi decido: vado alla tomba del mio nonno materno. Ricordavo e ricordo bene dove rimane. Aspetto 20 minuti buoni. Arriva mia madre con i miei fratelli. Non credeva mi sarei ricordato, infatti arriva con il custode. Avevano dato l’allarme.
Il senso di smarrimento di quell’episodio di tanti anni fa mi porta alla mente quello che spesso si prova in una città moderna, magari in un’area periferica dove un palo della luce o l’insegna del tabacchi fa da riferimento collettivo. L’artista visionario Igor Morski ha colto bene la cosa, nell’opera che fa da copertina.
Credo che quel senso di smarrimento sia molto simile a quello che si prova all’interno di un labirinto.
L’origine della parola è di Creta. Probabilmente lo stesso palazzo di Cnosso, mitologicamente abitato dal Minotauro è da intendersi come il primo esemplare. Ne sono succeduti tanti altri in epoca romana e poi medievale. In tutti il senso di smarrimento, di perdita del controllo e di allucinazione. Per la cultura cattolica il centro del labirinto rappresenta la “città di Dio” e quindi il suo percorso, lungo e tortuoso, è un percorso di espiazione, un pellegrinaggio percorso in preghiera per chi non poteva intraprendere un vero viaggio.
Ma non necessariamente lo smarrimento è negativo: la percezione di quello che ti sta attorno si acuisce. Gli oggetti, fino ad allora inanimati, acquisiscono spessore e vitalità.
In architettura la riproposizione di un percorso tortuoso e sincopato crea una suspence che non si coglie attraverso un reportage fotografico ma attraverso l’esperienza diretta. Analoga a quella che si può vivere attraverso alcuni cunicoli delle grotte di Frasassi che poi giungono ad aprirsi in “stanze” enormi, o quando si esce dalla gola del Furlo, presso Pesaro Urbino.
Tanto più intenso è il senso di smarrimento, tanto più forte è quello di riappacificazione finale.
E, almeno da piccoli, più sentito è l’abbraccio materno.